Quando si dice che le periferie creano più movimento del centro. E non è una questione urbanistica, ma intellettuale, letteraria e persino amicale. Goethe parlava di affinità elettive, e non vi è dubbio che esse possano smuovere il mondo nel loro legarsi come la chimica a certe sostanze piuttosto che ad altre, e pertanto creare rapporti inimmaginabili. Creare, appunto. E quella che vi raccontiamo è, in fondo, la nascita, nel tempo, di una creatura ora matura.
Il protagonista è un uomo del profondo sud, Leonardo Sciascia, proveniente come Pirandello da quella Sicilia brulicante di zolfara, polvere e miseria. Sciascia, che non faceva mistero dell’estrazione ‘periferica’ – dalla sua scuola elementare alla bottega dello zio sarto – balzò al ‘centro’ con l’inaspettato successo de Il giorno della civetta senza che i clamori cambiassero più di tanto quel suo tratto schivo e non amante della ribalta, quel suo spendersi per scrittori talentuosi ma ancora oscuri. Disciplinato e rigoroso, incarnava in pieno lo spirito della letteratura: la sua humanitas nella vita di tutti i giorni ne rappresentava la quintessenza. Storie d’altri tempi, si direbbe. Ma così non è per noi foggiani, perché per un curioso gioco della sorte l’Archivio Sciascia non si trova a Racalmuto o in una città centrale e nevralgica d’Italia, ma in un paese assolutamente periferico: San Marco in Lamis. Gargano profondo, o per dirla con Pasquale Soccio, segreto.
“Paese distante geograficamente, eppure incredibilmente prossimo a certe descrizioni sciasciane di villaggi rotondi come le forme della Madre, dove le spighe non graniscono, la miseria ha estirpato gli abitanti come malapianta costringendoli a epocali migrazioni”. Così ha magistralmente sintetizzato la studiosa Lucia Tancredi questo pezzo di terra ricco di storia. Il motivo per cui l’Archivio Sciascia si trovi a San Marco in Lamis è presto detto. Lo studioso siciliano era amico di Antonio Motta, professore di liceo, grande esperto di letteratura che di recente ha ricordato questa ‘affinità elettiva’ nella pregevole monografia Leonardo Sciascia. La memoria, la nostalgia e il mistero.
L’amicizia, neanche a dirlo, sembra presa di peso dalla trama di un romanzo, con la differenza che è tutto vero. L’occasione è una semplice lettera inviata da Motta a Sciascia in occasione della commemorazione di Francesca de Carolis, conterranea di Antonio Motta, giustiziata dai sanfedisti. È il 1976. La si ricorda con un premio in una scuola che porta il suo nome. È l’occasione per l’inizio di una bella corrispondenza e di studi che da quel momento fioriscono nel nome di Sciascia.
Motta pubblicherà l’anno dopo, con l’editore Pietro Lacaita, il libretto Leonardo Sciascia a San Marco in Lamis nel quale è condensata tutta la cronaca dell’evento svoltosi presso la scuola media Francesca De Carolis: la sala traboccante di pubblico, la curiosità e l’attesa, la pacata e lucida ironia di Sciascia che ringrazia del premio da parte di un liceo intitolato ad Enrico Fermi. Ironia della sorte: proprio lui che con La scomparsa di Majorana aveva insinuato il dubbio sull’arroganza della scienza impegnata a far esplodere gli arsenali del mondo. Alle domande di Motta, la conversazione di Sciascia è rotonda, di bella maniera, ma la sua lingua batte dove i denti dolgono: Io non sono un mafiologo, ho scritto quello che conosco ma, ora che la mafia è un’internazionale del crimine, non mi interessa come scrittore, ma come cittadino.
Chi pensava di incontrare uno Sciascia fomentatore della gioventù, alla francese, resta stupito: dai giovani mi aspetto meno manifestazioni di piazza e più studio.
Si stupiscono anche i fautori di una certa letteratura impegnata su cui lo scrittore siciliano dà un giudizio tranchant: trovo molto diletto a leggere scrittori che sono fuori da ogni impegno e impegnati con se stessi, e però sempre con la verità dell’uomo.
Leonardo Sciascia a San Marco in Lamis sarebbe entrato a far parte dell’epica favolosa, al modo degli angeli e dei briganti, se Antonio Motta non avesse rielaborato fattivamente questa occasione decidendo di creare un Archivio Sciascia. È stata nel tempo un’impresa impervia perché è significato documentare non solo l’attività di Sciascia-scrittore, ma anche quella di giornalista, recensore critico, opinionista, politico, finissimo intenditore di fotografia, cinema e arti figurative.
San Marco in Lamis, pandemia permettendo, merita pertanto un pellegrinaggio laico all’Archivio, nel punto di segreta convergenza tra la Via Sacra che conduce alla grotta dell’Arcangelo Michele passando per il paese di San Pio. L’Archivio, va detto, non ha scorci che trasudano storia, men che meno è permeato del fascino decadente che dà il quid alla letteratura; ma poco importa. Antonio Motta, come Virgilio, dà indicazioni, ricostruisce il materiale e con la competenza non comune di chi sa unire il rigore del documento alla bellezza della letteratura – quest’ultima è affascinante soprattutto quando rinvia al caos e all’inquietudine – spiega i nessi del variegato affresco dell’Archivio. E chissà che non possa essere materiale di studio per i giovani laureandi dell’Ateneo foggiano.
L’Archivio è mimetizzato in settimini, trumò, comodini e commodes, armadi convertiti in librerie abbinati a tavolinetti e sedie impagliate da veranda. Antonio Motta sintetizza con un dipinto cosa ha rappresentato Sciascia per lui: «Dei tanti autoritratti disseminati da Sciascia nelle sue opere quello del Cavaliere è il più vero (e forse il più bello). Il Cavaliere di Dürer, che si aggira solitario per la citta turrita in cerca della verità, è l’ultima immagine che mi porto dentro di Sciascia. Era una giornata di settembre in Piazza Pantheon. Parlammo del Cavaliere e la morte, che mi arrivò puntuale, come tutti i suoi libri, prima del Natale. Il titolo aveva un suono, un’eco di solitudine, la paura di ciò che è sconosciuto, che si amplificava di passaggio in passaggio. La città del Cavaliere non esiste in nessun atlante geografico, perché l’estraniamento dell’uomo è storico e è anche geografico. Ricordo che quando finii di leggere il libro provai uno sgomento che arrivava fino alla bellezza.
Il finale conteneva una premonizione come se Sciascia si fosse congedato dal mondo in anticipo: « [il Vice] pensò “che confusione”. Da un mondo di miserie e di nefandezze, ma anche di musiche, di amori, di primavere».
*Scrittrice