Quando nel 1959 Lucio Mastronardi pubblicò Il calzolaio di Vigevano non gli demmo molta importanza. Di Mastronardi ci accorgemmo qualche anno dopo perché il secondo titolo della serie – l’amarissimo Il maestro di Vigevano – divenne un film con Sordi che, sia pure nel dramma di un maestro spiantato e umiliato anche dalla moglie, ci strappò più di una risata. Ma il calzolaio vigevanese meritava maggior credito: fu l’inizio di una serie di testi sul nuovo lavoro d’Italia, quella del boom, e della famosa “alienazione” del lavoratore sublimata da Antonioni e parodiata dal Gassman del Sorpasso: ecco Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri, Memoriale di Paolo Volponi e Il padrone di Goffredo Parise, usciti uno di seguito all’altro fino alla metà degli anni Sessanta. E l’elenco potrebbe continuare.
Ma c’è un libro che venne più tardi, quando la stringente dialettica del nuovo lavoro negli anni del benessere era scemata. Anzi, era finita del tutto e aveva lasciato i segni di una tragedia e, forse, di una farsa. Quando penso alla narrativa sul lavoro del nostro romanzo degli ultimi cinquant’anni, penso di solito a La chiave a stella di Primo Levi. Ci penso e con un certo sentimento di gratitudine, perché con le pagine di quel libro Levi ci testimoniava la letizia del lavoro operaio, in anni di pesanti fratture sociali, di scontri e di piombo. Negli anni successivi allo Stauto dei Lavoratori Levi scrive il suo primo fiction novel: in Unione Sovietica si incontrano due torinesi, il narratore e Tino Faussone, un operaio specializzato che deve testare un escavatore. Ma Faussone è un operaio anomalo: non il lavoratore alienato, non il lavoratore lugubre che mendica l’ennesima rivendicazione sociale. Egli ha deciso di uscire dalla topaia: viaggia, passa da un continente all’altro e costruisce. Ovunque vada, lavora e costruisce. E tutto con la sua chiave a stella. Fa l’operaio e ne è felice, lieto. Non potrebbe vivere meglio. Ha rotto le stesse catene di Spartaco, il che nell’Italia di cinquant’anni fa voleva dire rompere la catena di montaggio. Ma lo ha fatto da una prospettiva insolita per quel tempo, cioè viaggiando.
La chiave a stella non è soltanto una scrittura sul lavoro, ma sugli “stati” dell’essere. Direi, anzi, che è davvero un libro sul lavoro proprio perché gioca sullo stato della nostra esistenza: meritiamo un’altra vita, pare dire Faussone. E lo dice prima di tutto al suo interlocutore, il narratore, Levi stesso, l’intellettuale. Il viaggio, la dote di natura e di scoperta che abbiamo per il solo fatto di esserci, dà al lavoro che faremo – anche il più faticoso – il contrassegno della dignità. Perché – afferma ancora il nostro amico Tino – restare in casa «è come succhiare un chiodo» e ogni lavoro nuovo «è come un primo amore».
Col tempo, a forza di leggere e rileggere La chiave a stella, Tino mi è diventato caro. E, pur tra i libri e le carte, e lontano da viti e bulloni, finisco col dire quel che Levi rispose al suo amico: «amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra».