"Il cinema necessariamente affascina e violenta. Cosi agisce sulle persone. È qualcosa di assai torbido, che si vede nel buio, dove si proietta la stessa cosa che nei sogni. In questo caso è il luogo comune ad essere vero." - Jacques Rivette
"Posso offrirvi solo perplessità." - Jorge Luis Borges
Siamo giunti alla penultima edizione della Mostra (fa bene il Presidente Buttafuoco a sottolineare che non è un festival) internazionale dell’arte cinematografica dell’era Baratta. Un’era che speriamo in futuro non dover rimpiangere. Avere la possibilità di incontrare e vedere gli ultimi lavori di Herzog, Lanthimos, Del Toro, Sorrentino, Jarmusch, Assayas, Coppola, Bellocchio, Bigelow, Capuano, Sokurov, Van Sant, Tsai Ming-liang, Guadagnino è merito da ascrivere al suo direttore che rendono Venezia il più importante (non)festival di cinema al mondo oltre ad essere il più antico. Il cinema è un’arte che affascina e violenta, come scrive Rivette, che agisce sulle persone, che le smuove, che urta le loro coscienze, che semina dubbi e perplessità, come direbbe Borges. Tutti noi che ogni anno, da innumerevoli anni, affrontiamo fatiche e costi per tuffarci nella visione di almeno un terzo delle produzioni che vengono offerte alla nostra attenzione (anche vedendo cinque/sei opere al giorno per gli undici giorni della mostra non si riesce che a vedere solo una minima parte delle produzioni che sbarcano a Venezia da tutto il mondo) ci nutriamo di dilemmi etici, di sofferenza, di rabbia e dolore che indubbiamente certe immagini o situazioni producono nella nostra coscienza.
Quando sento gli amici augurarmi ‘buon divertimento’ mi vien da sorridere. Magari potessi divertirmi alla Mostra del Cinema. È un bagno di sangue e patimenti, anche personali visto che non si dorme, non si mangia, non si beve (quest’ultima cosa ha anche una sua evidente utilità pratica).
Ma allora perché consumare le proprie ferie, spendere del denaro, chiudersi da mane a sera in una sala?
Perché abbiamo tutti bisogno di bagnarci nei dubbi, nelle perplessità che nessun’arte riesce a infondere meglio nelle nostre coscienze. Acquisire punti di vista sulle cose del mondo, cambiare prospettiva, scambiare idee e impressioni con altre persone che sono lì per gli stessi tuoi motivi. E’ una esperienza unica che può arricchirti notevolmente, è qualcosa di unico che promuoviamo ogni anno proponendola ai nostri studenti che partecipano agli eventi del nostro cineclub universitario. Quest’anno erano 2300 gli studenti universitari provenienti da tutto il mondo che si sono dati convegno al Lido. Guardare questi giovani assonnati fare la fila alle 8,00 alla Darsena o al Palabiennale e commentare poi con grande acume i film appena visti, oppure ascoltare la giuria degli studenti delle Università con corsi di cinema diretti da Tommaso Santambrogio, vederli selezionare le opere cinematografiche del passato nella sezione restauri, illumina di gioia e speranza tutti coloro che hanno a cuore il futuro del genere umano.
Ma veniamo a qualche commento sui film visti. La caratteristica delle ultime edizioni della Mostra è di focalizzarsi sempre di più sui tempi che viviamo. Anche quando si tratta di opere tratte da scritti del passato, come ad esempio nel caso di “Etty”, serie tv centrata sui diari di Etty Hillesum (intellettuale ebrea olandese morta ad Auschwitz), l’ambientazione è ai giorni nostri quasi a voler ricordare a tutti noi che il ‘mai più’ non è scontato e che quel buio della mente può di nuovo affacciarsi ai nostri tempi. Il cinema della Mostra cerca quindi di ergersi a specchio e palcoscenico che prova a guardare il mondo in faccia. Il racconto della contemporaneità è infatti la caratteristica dell’edizione di quest’anno. L'82esima Mostra è stata un'edizione di conferme e di qualche inaspettata sorpresa, un'edizione in cui il cinema ha cercato una via, non sempre trovandola, suscitando però sempre le borgesiane perplessità.
La Consapevolezza del Gesto Cinematografico
Un cinema che ha smesso di volersi a tutti i costi "inventare" mondi nuovi, per tornare a riflettere il mondo che viviamo. Non c'è più la fretta di stupire con film mirabolanti o visivamente stupefacenti, ma la voglia di raccontare storie che abbiano un peso, un significato. Non si tratta di un ritorno al cinema "politico" degli anni Settanta (di cui forse si sente la rinnovata necessità vedi i tanti riferimenti al cinema di Costa Gavras, Kieślowski, Rosi), ma di una sorta di consapevolezza che il cinema, per esistere, deve avere un'anima. E in questo senso, la Mostra ha offerto spunti interessanti, anche se non sempre convincenti.
Dei 21 film della selezione ufficiale visti in sala: due parole su qualcuno di essi di cui resterà memoria
Father, Mother, Sister, Brother di Jim Jarmusch e La grazia di Paolo Sorrentino. La giuria ha premiato la poesia. Jarmusch, un vecchio saggio che conosce le regole del gioco e le infrange con un sorriso, ha vinto il Leone d'Oro. E lo ha fatto con un film che è l'esatto contrario di quello che ci si aspetterebbe da un festival. Silenzioso, malinconico, fatto di sguardi e di vuoti. Non il suo lavoro più "rivoluzionario", ma forse il più "necessario". Un film che, con pochi mezzi, raggiunge il massimo riconoscimento raccontando la fragilità delle relazioni umane, famiglie che non sono più le roccaforti in cui trincerarsi per difendersi dal mondo esterno, ma terreno di ipocrisie e fingimenti. E analogo riconoscimento è andato al film di Sorrentino, intriso di dialoghi brillanti, di immagini suadenti, di un Servillo sempre straordinario che diventa l’anima stessa del film oltre che l’alter ego del suo autore, come Mastroianni lo fu per Fellini. Coppa Volpi meritatissima come sarebbe stata anche quella per la miglior interprete femminile alla Valeria Bruni Tedeschi, una Duse perfetta con le sue immense fragilità (capace di grandi trionfi e di enormi insuccessi).
The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania. La Mostra ha avuto il coraggio di premiare, con il Gran Premio della Giuria, un'opera che è un pugno nello stomaco, una testimonianza che fa male. Il cinema che si fa cronaca, che si fa grido (di una povera bimba palestinese di sei anni), che non ha paura di schierarsi. Un film che possiede una forza morale potentissima e che ci fa chiedere ma che mondo è quello in cui non si riesce a salvare una bambina che chiede aiuto?
Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi. Il suo è stato un film molto criticato dagli accreditati (l’accusa è che faccia sempre lo stesso film). Rosi racconta il territorio stratificato nei secoli e nelle anime di un popolo, quello napoletano unico nel suo genere (i dialoghi tra gli operatori dei vigili del fuoco e i cittadini sono esilaranti). La giuria, con il Premio Speciale, ha riconosciuto il suo sguardo, la sua capacità di farci guardare dentro la realtà, senza filtri e senza commenti. È un cinema che cerca la verità, che si affida al potere delle immagini, che non ha bisogno di artifici. E il risultato è un film che non ti lascia indifferente, che ti fa riflettere, che ti scuote nel profondo. Non è il solito documentario "impegnato", ma un'opera di un autore che ha qualcosa da dire. E con gli inserti archeologici e pedagogici merita una visione da parte dei nostri studenti.
Alla fine dei conti una edizione in salute, per l’appunto in stato di grazia (per citare uno dei suoi film più belli), i cui meriti sono del suo direttore in attesa della sua ‘ultima’ Mostra.