“Spezza il tuo bisogno e la tua paura di esser schiavo, il pane è libertà, la libertà è pane".
Queste le parole che pronunciò Albert R. Parsons al giudice Gary nel processo che lo condusse sul patibolo nel 1887, facendo di lui uno dei martiri di Chicago. In relazione a questo delitto di Stato, commesso ai danni di coloro che reclamavano solo le otto ore di lavoro per legge al fine di eliminare l'ipersfruttamento delle masse lavoratrici, che ogni anno, dallo storico congresso di Parigi del 1889, in tutto il Mondo, si festeggiano le lavoratrici e i lavoratori.
Fu una conquista durissima. Basti leggere quel che scrissero le organizzazioni datoriali per contrastare la celebrazione del primo maggio:
"I sottoscritti industriali s'impegnano a respingere il principio e l'effettuazione della sospensione del lavoro il prossimo primo maggio. Essi licenzieranno tutti gli operai che abbandoneranno senza autorizzazione la fabbrica prima dell'orario regolamentare o, che senza giusta causa o per forza maggiore, non si presenteranno al lavoro quel giorno. Essi si impegnano reciprocamente a non assumere alle proprie dipendenze qualsiasi operaio che sarà stato licenziato da un membro dell'associazione...".
Tutte le lavoratrici e i lavoratori ma, soprattutto, coloro che hanno la responsabilità della guida delle organizzazioni che rappresentano i loro diritti e interessi, dovrebbero sempre avere in mente che certi diritti sono stati conquistati anche con il sacrificio di vite umane e che nessun diritto è per sempre. Le conquiste sindacali, le conquiste di chi lavora devono essere tutelate e protette, ogni giorno.
Il mondo del lavoro è in continua, magmatica trasformazione. Oggi più che mai.
Il lavoro agile, congiuntamente al riconoscimento della sua utilità (per il lavoratore e la lavoratrice che incontrano quotidianamente mille difficoltà conciliando il lavoro con gli impegni familiari, ma anche per il datore di lavoro), difficilmente avrebbe avuto tale diffusione se non fosse stato applicato, a causa della pandemia, in modo cosi capillare, tanto nel privato, quanto nelle pubbliche amministrazioni. La scoperta che il lavoro, separato da un luogo fisico predeterminato, potesse essere altrettanto, se non più produttivo, senza pensare alle esternalità positive legate alla riduzione della mobilità, dell’inquinamento, del congestionamento, è una delle grandi opportunità che l’umanità avrebbe dovuto e che, invece, ha saputo, cogliere dall’immane crisi di questi tempi.
Tuttavia, la produttività va incanalata nel giusto modo al fine di scongiurare la spada di Damocle del burn-out, quella condizione di stress psico-fisico determinato dal fatto che la conciliazione tempo-lavoro/tempo-famiglia rischia di renderli indistinguibili, con il primo che fagocita il secondo.
Abbiamo molto apprezzato l'avvio voluto dal Rettore di un percorso, anche di studio, finalizzato a promuovere un reale benessere psico-fisico delle lavoratrici e dei lavoratori nella nostra Università. Quali rappresentanze sindacali dell’Ateneo intendiamo offrire un contributo reale al raggiungimento di questo risultato. La nostra percezione, avvalorata da testimonianze che abbiamo raccolto anche da diverse colleghe e colleghi, è che occorre fare ancora tanto per il conseguimento di questo obiettivo. Un adeguato carico di lavoro, il non sempre certosino rispetto, da parte dell’utenza interna ed esterna, delle fasce di contattabilità, la non sempre corretta interpretazione del ruolo politico che spesso esonda in quello gestionale, sono piccoli/grandi problemi sui quali occorre lavorare insieme per una Comunità professionale sempre più orgogliosa del ruolo che ricopre e sempre più consapevole dell’importanza che il proprio lavoro contribuisca ad una crescita reale e duratura di un territorio che non vogliamo più vedere stabilmente agli ultimi posti della qualità della vita nei vari ranking nazionali.
E poi l’altro tema ancora irrisolto del nostro tempo. Se c'è, infatti, chi sostiene che sia possibile ridurre il tempo/lavoro a parità di retribuzione, c'è anche chi teorizza che si possa uscire dalla recessione solo rendendo il lavoro ancor più flessibile, precarizzandolo ancor di più di quanto già non lo sia ai giorni nostri.
Come sostiene Silvio Lorusso nel saggio “Entreprecariat”, coniando il neologismo imprendicariato, oggi il precario è costretto a essere imprenditore, ma imprenditore presso se stesso. E occorre pensare a tutti coloro che un lavoro ancora non possiedono. Intelligenze e capacità non utilizzate e progetti di vita, giocoforza, irrealizzati e inespressi. Ricchezza potenziale di un Paese, di un Sud, che ha tante frecce nella propria faretra ma che non si è in grado di scoccare verso l’obiettivo del ‘progresso morale e spirituale della società’. Byung-Chul Han, uno dei grandi pensatori del nostro tempo, sostiene correttamente che il mondo del lavoro non è fatto più di soggetti, le lavoratrici e i lavoratori, ma di progetti incarnati in individui. E tutto ciò comporta degli effetti: etici (dove tutti sono sostituibili, tutti sono concorrenti e cos'altro ciò rappresenta se non l'hobbesiano homo homini lupus?), psicologici (l’ansia verso un futuro impensabile e non programmabile, un esistere ridotto all’eterno presente e frammentato in progetti, l’impossibilità di creare un’identità stabile e coerente), sociali (l’incapacità di farsi carico di responsabilità familiari, per esempio).
In una giornata come questa, dunque, occorre fare una riflessione profonda, a farla sia soprattutto la nostra categoria di lavoratrici e lavoratori, per la maggioranza, "stabili", per impedire che il mondo del lavoro finisca con il trasformarsi in un terreno dove ogni cittadino non abbia la possibilità "di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società" (art.4, comma 2 della nostra Costituzione), perché non può esservi progresso nel precariato.
Un progresso che va ricercato senza dubbio nelle forme di un lavoro stabile e duraturo ma che anche inevitabilmente confida in una ripartenza per tutti quei lavoratori e quelle lavoratrici che si sono dovuti fermare, a cui il Paese deve tendere una mano, e che ha continuato ad alimentarsi grazie a coloro che non si sono mai fermati, anche se in luoghi diversi dai propri uffici.
L’Università che del progresso ne disegna le orme non si è mai fermata, a Foggia come altrove, ha attraversato e sta cavalcando l’onda pandemica senza mai abbassare la guardia e la Comunità universitaria ha garantito le sue attività senza risparmiarsi.
L’Università è non solo il granaio pubblico, per parafrasare una metafora arcinota della Yourcenar, l’ammasso di riserve contro l’inverno dello spirito, ma è anche l’agorà, il luogo aperto e sempre raggiungibile da tutta la collettività, ove favorire l’interscambio delle idee e dei progetti. E le sue lavoratrici e i suoi lavoratori ne sono le fondamenta, le stoài, gli architravi.
Buon primo maggio a tutte le lavoratrici e i lavoratori del nostro Ateneo, ma anche alle nostre studentesse e ai nostri studenti e a tutta la Comunità cittadina e provinciale che ha a cuore granai e agorà.