Dai gesuiti agli illuministi: la genesi dei Cinque Reali Siti

La censuazione del Tavoliere trasformò centinaia di famiglie di braccianti nullatenenti in piccoli affittuari indipendenti

Tavoliere delle Puglie
Niccolò Guasti*

Se, per dirla con Franco Venturi, l’Illuminismo si connotò come un movimento politico che tese a trasformare l’utopia in riforma, uno dei luoghi dell’Europa in cui tale trasformazione si palesò con chiarezza fu certamente il Tavoliere. Qui, nel corso del 1774, il governo riformatore guidato da Bernardo Tanucci fondò i cinque Reali Siti sulle ceneri delle masserie di Orta, Ordona, Stornara e Stornarella, masserie che i gesuiti romani avevano acquistato all’inizio del Seicento. È opportuno ricordare quella vicenda, da tempo nota agli specialisti e recentemente celebrata in un romanzo storico di Francesco Mercurio, non solo per il rilevante significato che essa ricopre nell’ambito della storia del territorio foggiano, ma anche per la valenza che, già all’epoca, acquisì all’interno del movimento illuminista e riformatore europeo. Tanucci e i funzionari borbonici che realizzarono il progetto di “censuazione” dei terreni delle masserie (in particolare Francesco Nicola De Dominicis, uditore del tribunale della Dogana) non si prefiggevano semplicemente di popolare la piana disabitata del Tavoliere, quanto piuttosto trasformare centinaia di famiglie di braccianti nullatenenti in piccoli affittuari indipendenti; essi partirono dal presupposto –avanzato con chiarezza dall’illuminista Antonio Genovesi nelle Lezioni di commercio(1765-67) e nei corsi universitari di “economia civile” da lui impartiti grazie alla cattedra napoletana di “Commercio e Meccanica” (1754) – che lo sviluppo dell’economia meridionale dovesse necessariamente passare attraverso un’agricoltura fondata sulla piccola proprietà/affittanza terriera (invece che sul grande latifondo) e sulla possibilità che i contadini potessero beneficiare liberamente dei profitti delle loro attività (solitamente incamerati dai baroni e dai grandi mercanti di granaglie).

Si pensò perciò di utilizzare le terre confiscate ai gesuiti, espulsi da tutto il regno alla fine del 1767, per realizzare una vera e propria riforma agraria che mutasse i rapporti di produzione e, con essi, quelli sociali. L’unico contesto meridionale in cui tale progetto venne effettivamente realizzato con coerenza fu proprio la Capitanata. Infatti, mentre in tutto il Regno di Napoli e in Sicilia le terre requisite alla Compagnia di Gesù vennero solitamente vendute all’asta, rimpinguando così i patrimoni dei baroni e dei ricchi borghesi di provincia, buona parte delle terre coltivabili delle masserie di Orta, Ordona, Stornara, Stornarella vennero “censuate” e cioè suddivise in poderi di circa 12 ettari, poi concessi in affitto con contratti a lunga scadenza (29 anni) a 410 famiglie di contadini poveri provenienti dai piccoli centri, solitamente infeudati, del Subappenino dauno, del Gargano, del Molise, della Terra di Bari e della Basilicata. La novità quasi rivoluzionaria di tale scelta scaturiva anche da ulteriori fattori, il primo dei quali era la subordinazione della pastorizia transumante alla coltivazione dei grani. Fin dalla metà del Quattrocento i terreni del Tavoliere erano gestiti dalla Dogana delle pecore a favore delle esigenze della transumanza, dalla cui attività lo Stato traeva ingenti entrate fiscali; per cui risolvere a favore degli agricoltori il secolare conflitto che li vedeva contrapposti ai “locati” proprietari degli armenti significava non solo infrangere radicate consuetudini, ma implicava pure sacrificare gli immediati interessi di cassa in vista di un aleatorio bene più elevato, l’utilità o la “felicità pubblica” di un migliaio di ex braccianti agricoli. La censuazione, quindi, perseguiva un fine utopico se parametrato ai valori e agli assetti della società cetuale d’Antico Regime, una società in cui i contadini (i “cafoni”) erano disprezzati dalle élites in quanto considerati esseri irrazionali (letteralmente: “mentecatti”), del tutto simili alle bestie da soma.

I futuri centri urbani di Orta, Ordona, Stornara e Stornarella, si svilupparono a raggiera a partire dagli edifici delle antiche masserie, a cominciare dal Palazzo gesuitico d’Orta, i quali vennero considerati il cuore degli insediamenti, mentre nel caso di Carapelle il centro della nuova “unione” venne individuato nel ponte sull’omonimo fiume. Il governo di Napoli garantì a ogni famiglia di censuari un’abitazione, una stalla, gli attrezzi e gli animali da lavoro, le sementi necessarie per la prima semina, finanziando altresì la costruzione di una taverna/spaccio, un mulino e un forno in ognuno dei siti reali. Nonostante le tanti difficoltà di natura economica e alcune improvvide scelte effettuate tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta dal governo borbonico, alla fine i cinque Reali Siti riuscirono comunque a svilupparsi grazie alla laboriosità e alla tenacia delle proprie popolazioni, tanto che nel 1806 le colonie contavano più di 3.400 abitanti; così, prendendo atto di una crescita più che evidente, il primo maggio 1808 il nuovo regime napoleonico riconobbe lo status di comune(cioè di “università”) ai centri che avevano conosciuto il maggior incremento demografico, e cioè Orta e Stornarella.

In definitiva l’operazione di censuazione effettuata in Capitanata nel 1774 si configura come un ambizioso tentativo di modificare dall’interno la società d’Antico Regime in base a un criterio di equità sociale e di utilità pubblica che, pur ispirandosi ad alcuni modelli di poco precedenti (come quelli realizzati da Pietro Leopoldo di Toscana in Maremma e da Carlo III in Andalusia) e pur interessando una porzione limitata del territorio meridionale, rappresenta comunque uno degli episodi più significativi del movimento riformatore europeo legato ai Lumi.

 

*Docente di Storia Moderna presso il Dipartimento di Studi Umanistici