Massimo Levantaci, giornalista professionista della Gazzetta del Mezzogiorno, ha recentemente conseguito la laurea in Comunicazione, Relazioni Pubbliche e Tecnologie Digitali presso il Dipartimento di Economia, Management e Territorio dell'Università di Foggia. Il suo percorso di studi si è concluso con la discussione di una tesi dal titolo significativo: “Dalle borgate rurali ai ghetti dei migranti. In Capitanata un cerchio da chiudere”.
La tesi, elaborata sotto la guida del professor De Nardis e della professoressa Fanizza (relatrice), affronta una delle problematiche sociali più scottanti della provincia di Foggia: la vergogna dei ghetti dei migranti. Questo fenomeno, che vede la concentrazione di lavoratori stranieri in condizioni di estrema precarietà e marginalità, rappresenta una ferita aperta nel tessuto sociale ed economico del territorio.
Il giornalista ha dedicato la sua ricerca a un’analisi approfondita delle origini e delle evoluzioni di queste situazioni di degrado, tracciando un parallelo tra le vecchie borgate rurali e i moderni ghetti dei migranti. La sua tesi non si limita alla denuncia delle condizioni disumane in cui vivono molti lavoratori agricoli, ma esamina anche i progetti e le iniziative attualmente in atto per risolvere questa crisi umanitaria.
Particolare attenzione è stata rivolta ai finanziamenti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che rappresentano una speranza concreta per il superamento di queste realtà. Levantaci ha analizzato come questi fondi possano essere utilizzati per promuovere l’integrazione sociale ed economica dei migranti, migliorando le loro condizioni abitative e lavorative e favorendo una maggiore coesione sociale.
Levantaci è il primo giornalista professionista a laurearsi in Comunicazione presso l’Università di Foggia, un primato che testimonia l’importanza della formazione continua e della specializzazione anche per chi già opera nel mondo dell’informazione.
Di seguito il suo personale racconto sull’esperienza universitaria:
« è stato un percorso di studi inatteso, sorprendente, rivelatore di un mondo che non conoscevo ma di cui ero convinto di saperne già molto. Sbagliando.
La mia università è stata una scoperta giorno dopo giorno, luogo di spunti e di riflessioni che hanno arricchito il mio bagaglio umano e professionale. Tre anni vissuti tutti d’un fiato: faccio il giornalista professionista da trent’anni e avevo interpretato l’istituzione del corso in Comunicazione, Relazioni pubbliche e tecnologie digitali (estate 2021) come l’assist perfetto per riprendere i miei studi in Sociologia (specializzazione “Mass media”), università La Sapienza di Roma, interrotti nel lontano 1990 per ragioni di… lavoro: quella che di lì a pochi anni sarebbe infatti diventata la mia professione, nonché la mia ragione di vita, a quei tempi mi sottraeva del tempo prezioso da dedicare allo studio. Perciò fui obbligato a scegliere.
Tutto è filato liscio in questi tre anni? Diciamo di sì. Racconterò più avanti dove sono state tradite, sia pure parzialmente, le aspettative di chi ha vissuto il percorso di studi rivisitandolo attraverso gli occhiali dell'esperienza. Mi limiterò preliminarmente a ricordare che il mio viaggio da studente “fuori tempo” è stato sorretto dalla curiosità del cronista, strumento per me indispensabile ma che, a prescindere dal lavoro che si svolge, non dovrebbe mai mancare a maggior ragione poi in un’aula studentesca. Penso al confronto costante con i miei colleghi di corso, quasi tutti molto più giovani di me: studenti poco più che ventenni, freschi di Maturità, sognatori com’è giusto che sia a quell’età, ma forse non come lo eravamo noi ai nostri vent’anni. I ragazzi di oggi sono più realisti, o meno disillusi. Chiedono spazio al futuro, ma temono di doversene inventare uno. Sono più bravi ad adattarsi alle situazioni, in un mondo più a portata di mano di quanto non lo fosse trent’anni fa. Sanno “smanettare”, con un clic si ricava davvero la sensazione di poter andare ovunque o raggiungere ogni cosa. Ma questo mondo è molto più complesso di quello in cui sono stato ventenne io, ed è proprio qui la loro capacità: non temono di incappare in quella specie di analfabetismo di ritorno che oggi riguarda tutti coloro (e sono tanti) che non sanno ancora come muoversi sul web. E allora, semplificando un po’: loro oggi dispongono dei mezzi per conoscere e interpretare i cambiamenti della società, ma devono sgomitare per farsi avanti; un tempo si sgomitava lo stesso, ma almeno vedevamo il punto da raggiungere. I social e la rivoluzione digitale li ha resi più pragmatici, “multitasking” come si dice oggi. Ebbene con alcuni di loro ho avuto in questi anni un continuo scambio di vedute. Perché mi incuriosiscono, sono anni luce diversi da noi e pensavo di sapere già tutto avendo in casa una figlia 19enne.Sono stato il più “anziano” del gruppo, ma non l’unico: con don Arturo Di Sabato, viceparroco della Madonna Santa Maria della Spiga di Lucera, ci siamo spesso confrontati su questi argomenti oltre che sul percorso di studi a volte facendoci coraggio a vicenda, lui poi con la parola del Signore godeva di un vantaggio innegabile. Ci siamo sentiti più giovani, la “mia” università è stata anche un’immersione nei ricordi di una vita fa. Seppur da attempato studente, in mezzo a una selva di “colleghi” che avrebbero potuto essere miei figli o nipoti, non mi sono sentito un pesce fuor d’acqua e tutto sommato l’università di Foggia conferma in questi passaggi l’upgrade testimoniato dal giudizio positivo delle rilevazioni nazionali. Le aspettative tradite, scrivevo in apertura. Chiudo l’esperienza triennale con il rammarico di dover constatare come in un corso di Comunicazione, lo studio del giornalismo per come l’ho conosciuto (esame di Stato dell’Ordine nazionale superato nel luglio 1995) sia ormai roba da archeologia industriale. Le nuove tecnologie hanno asfaltato anche la memoria, i neolaureati in Comunicazione non sono giornalisti e probabilmente non sono nemmeno interessati a diventarlo. Ma forse qualcuno potrà riconoscere loro un ruolo e un percorso equipollente, perché nel frattempo la notizia è diventata anche fake-news e poco importa che qualcuno ci finisca dentro».