Nel nostro Paese sono oltre 3 milioni le persone che hanno problemi di peso, di rapporto con il cibo e con la propria immagine corporea. Il 70% di chi soffre di questi problemi è un adolescente. Ogni anno, in Italia, muoiono di anoressia e bulimia 3.240 persone e i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione costituiscono la prima causa di morte per malattia tra i 12 e i 25 anni ma l’età media di chi soffre di DCA (disturbi del comportamento alimentare) va pericolosamente abbassandosi. Una questione troppo spesso sottostimata. Si pensa spesso, infatti, che il problema riguardi quasi esclusivamente gli adolescenti dai 15 ai 19 anni, di sesso femminile. Le ultime evidenze mostrano casi di esordio della malattia già dagli 11 anni e in ragazzini di sesso maschile. La pandemia e i conseguenti lockdown hanno infatti inciso negativamente facendo registrare fino al 30% di casi in più nel 2020. Al tempo spesso, però, il Covid ha avuto il merito di mettere in evidenza una problematica spesso sottaciuta.
Ne abbiamo parlato con il dottor Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicoanalista, attualmente responsabile della U.O. Riabilitazione dei Disturbi Alimentari e della Nutrizione presso l’Auxologico Piancavallo (Verbania).
Foggiano, laureatosi in Medicina e Chirurgia all’Università di Foggia, Mendolicchio è tra i massimi esperti italiani in disturbi del comportamento alimentare. Ideatore del progetto Food For Mind per la diffusione di una metodologia di cura inclusiva e innovativa. Già direttore sanitario di Villa Miralago, autore di numerose pubblicazioni scientifiche nazionali e internazionali sul tema e ospite fisso della nota trasmissione di La7 Piazzapulita, Leonardo Mendolicchio è stato anche consulente scientifico per la docuserie “Fame d’amore”, andata in onda la scorsa primavera su Rai3. Nel suo ultimo libro, “Il peso dell’amore” (Rizzoli), presentato recentemente anche a Foggia, spiega perché è importante affrontare i disturbi legati al cibo all'interno della famiglia e a scuola.
Dottor Mendolicchio, in che modo il Covid ha pesato sui disturbi del comportamento alimentare? Il confinamento domestico ha amplificato i disagi oppure nel guscio protettivo delle proprie case e, venute meno le pressioni esterne e sociali spesso alla base dei Dca, i soggetti psicotici hanno potuto trarre dei benefici?
Il lockdown ha impattato in due modi nell’universo dei DCA. Il primo è relativo al peggioramento dei ragazzi già ammalati di DCA che a causa della riduzione dei servizi sanitari territoriali specializzati nella cura ha visto sottrarsi risorse e tempo dedicati alla cura (già abbastanza scarse prima della pandemia). Il secondo riguarda i nuovi casi “esplosi” durante la pandemia soprattutto tra gli adolescenti che a causa delle incertezze, dell’isolamento sociale e dello stress da DAD hanno riversato nel cibo e sul corpo le loro inquietudine comunicando in modo estremo il loro malessere.
Come vivono i suoi pazienti il delicato momento del ritorno alla socialità?
Sarà un momento delicato perché per questi pazienti il rapporto con gli altri, con l’alterità, è molto delicato. Se la fragilità di tutti avrà creato un contesto sociale più rispettoso delle difficoltà che ognuno di noi può vivere, allora il ritorno alla socialità sarà virtuoso. Invece se il mondo lascerà spazio alla rabbia e alla distruzione (come temo), ci saranno seri problemi non solo per i ragazzi affetti da DCA, ma per tutta la popolazione affetta da fragilità psichica.
La pandemia ha anche avuto il merito di far sì che venisse fuori il sommerso. È possibile che molti genitori, in una condizione di “convivenza forzata” e prolungata con i propri figli si siano accorti, per la prima volta, di un rapporto poco sano con il cibo?
La pandemia ha sdoganato molte cose, tra le più importanti ci sono le dinamiche familiari e il confronto serrato tra generazioni. Direi che la convivenza forzata ha fatto sì che genitori e figli potessero seriamente guardarsi negli occhi. Questa occasione sicuramente ha facilitato la consapevolezza di certi genitori rispetto al disagio dei figli. I genitori come spiego nel mio libro devono avere il coraggio di “guardare” in faccia le difficoltà dei propri figli. Questo è fondamentale per dare fiducia e coraggio a quest’ultimi che dovranno lottare contro i propri fantasmi.
Nel suo ultimo libro, “Il peso dell’amore”, spiega appunto perché è importante affrontare i disturbi legati al cibo all'interno della famiglia e a scuola: quanto è importante una diagnosi precoce per superare con successo il problema?
La diagnosi certa e rapida è il primo grande passo per vincere la battaglia contro un disturbo alimentare. Non sempre cogliamo le fragilità dei nostri figli. Un invito che faccio nel libro è rivolto ai genitori e riguarda l’importanza dell’etica del linguaggio. Spesso un genitore pensa "critico mio figlio a fin di bene", ma non è detto che quella critica produca davvero un effetto positivo. Bisogna stare molto attenti. Bisognerebbe dare importanza alle cose che diciamo e avere una cultura delle parole da utilizzare con i nostri figli, perché spesso queste diventano macigni nella loro testa.
In Italia ci sono strutture adeguate per diagnosticare e seguire i pazienti affetti da DCA?
Poche e non sempre ben gestite. Bisogna diffondere in modo capillare equipe preparate e multidisciplinari per la cura di anoressia e bulimia.
Trova che la società sia sfornita di mezzi per affrontare temi tanto delicati e complessi?
La nostra società ama il disordine consumistico ma dispregia la complessità banalizzando soprattutto gli aspetti profondi dell’ umanità. Per tale motivo una sofferenza così complessa viene stigmatizzata.
Che ruolo dovrebbe avere l’Università per colmare eventuali vuoti?
Innanzitutto quello di formare medici, psicologi, educatori e nutrizionisti pronti a saper curare tali problematiche. L’università dovrebbe essere il luogo di incontro tra ricerca, studio, abnegazione e desiderio. Se tale annodamento si perde, si perde il senso di una delle esperienze più importanti della vita di un giovane.