Il 14 maggio del 1948, in seguito alla Dichiarazione d’indipendenza israeliana, scoppiava la prima guerra arabo-israeliana, conclusasi con la vittoria e l’insediamento dello Stato d’Israele. Da allora, diverse altre guerre hanno tormentato l’area acutizzando i problemi irrisolti e, dopo 73 anni, l’ennesimo riaccendersi del conflitto israelo-palestinese ha suscitato nuovi interrogativi. Sull’argomento abbiamo intervistato il prof. Aldo Ligustro, docente ordinario di Diritto Internazionale presso l’Università di Foggia.
Quali sono le cause storiche all’origine della questione israelo-palestinese?
Il conflitto israelo-palestinese ha origini remote, risalenti al periodo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando, in risposta al crescente antisemitismo contro gli ebrei in Europa, si affermò un “movimento sionista” che, sostenendo la necessità di creare uno Stato ebraico, favorì a tal fine l’immigrazione di ebrei europei in Palestina, avvenuta in diverse ondate, ma soprattutto durante e dopo la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto.
Inevitabilmente ciò portò a continui e crescenti attriti tra la comunità ebraica palestinese, sempre più numerosa, e l’autoctona comunità araba. Entrambe, dopo la caduta dell’Impero ottomano e il Mandato per l’amministrazione della Palestina al Regno Unito, aspiravano alla creazione di Stati nazionali. Tuttavia, avendo esse rifiutato alcune proposte di spartizione dei territori contesi (da ultimo il Piano di spartizione approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1947), il conflitto si cristallizzò estendendosi, dopo la nascita di Israele, anche agli Stati arabi vicini, periodicamente intervenuti a favore della comunità araba palestinese e con l’obiettivo di distruggere Israele.
Perché si è ripresentata adesso la questione? Ci sono stati nuovi eventi che hanno determinato una rinnovata tensione tra le parti?
Alla base dell’attuale crisi vi è stata soprattutto l’emanazione da parte di un tribunale distrettuale israeliano di ordini di sfratto (nel frattempo sospesi) nei confronti di alcune famiglie arabo-palestinesi che occupano abitazioni e terreni loro assegnati negli anni ‘50 dalle autorità giordane a Gerusalemme Est, che allora la controllavano, ma rivendicati anche da coloni ebrei. Tali vicende, considerate da parte israeliana come semplici controversie private, e, invece, dai palestinesi come l’ennesimo episodio della “pulizia etnica” praticata da Israele nei propri confronti, hanno contribuito a scatenare i violenti scontri esplosi l’8 maggio tra le decine di migliaia di arabi riuniti sulla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme Est, in occasione dell’ultimo venerdì di preghiera che conclude il periodo di ramadam, e la polizia israeliana. Per molti osservatori, però, si sarebbe trattato piuttosto di un pretesto utilizzato come casus belli dalle principali fazioni rivali per consolidare al loro interno un potere ormai vacillante facendo cinicamente leva sul collante del nemico esterno: da una parte Hamas, l’organizzazione islamista e radicale che controlla la striscia di Gaza dal 2007, da cui è partito l’attacco missilistico sul territorio di Israele; dall’altra Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele in carica e leader del Likud (formazione politica di destra), che, in risposta, non ha esitato a sferrare l’operazione “Guardiano delle Mura”.
Come si pongono gli altri Stati e in generale la Comunità internazionale rispetto alla questione israelo-palestinese?
La comunità internazionale è intervenuta sin dall’inizio del conflitto con una serie di risoluzioni delle Nazioni Unite, sia dell’Assemblea generale che del Consiglio di sicurezza, che hanno nel tempo ribadito alcuni principi fondamentali cui dovrebbe ispirarsi la ricerca di una “pace giusta e duratura” in Palestina.
Il problema rispetto a tali risoluzioni è la loro attuazione. Le divisioni tra le grandi potenze che godono del diritto di veto in seno al Consiglio di sicurezza ne paralizzano spesso l’azione necessaria per assicurarne il rispetto. Gli Stati Uniti sono il principale alleato storico di Israele e difficilmente possono forzare eccessivamente la mano contro le posizioni di tale Paese. D’altro canto, però, essi hanno sempre avuto un ruolo imprescindibile nel guidare i tentativi di giungere ad una soluzione pacifica del conflitto e, dopo i quattro anni del mandato presidenziale di Donald Trump, la cui politica era totalmente squilibrata a favore del governo israeliano, il presidente Biden sembra invece aver di nuovo virato verso il tradizionale ruolo del suo Paese, da un lato affermando il diritto alla difesa di Israele (e quindi la sua vicinanza all’alleato di sempre), dall’altro esercitando tutta la sua influenza per ottenere e stabilizzare il cessate il fuoco appena concordato.
Per favorire il processo di pace, è spesso stato importante pure il coinvolgimento di altri importanti attori della scena internazionale, quali l’Unione europea e la Russia, e, su un altro versante, degli Stati arabi. Questi ultimi, tuttavia, mostrano da tempo gravi divisioni al loro interno (alimentate anche dalla contrapposizione attualmente in corso tra Sunniti e Sciiti) tra Paesi oltranzisti e fautori di una normalizzazione dei rapporti con Israele.
Secondo quanto previsto dal diritto internazionale, potrebbero coesistere due Stati sullo stesso territorio?
Il principio della coesistenza pacifica fra due Stati in seguito al riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele e al ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nel 1967 (compresa Gerusalemme Est), come presupposto per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, è alla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite cui ci riferivamo ed è conforme a fondamentali principi del diritto internazionale, come il divieto di acquisizioni territoriali con l’uso della forza e l’autodeterminazione dei popoli. Ma questa soluzione non potrà essere realizzata in modo spontaneo dalle parti in causa, ed è anzi destinata ad allontanarsi sempre di più nella misura in cui avanza l’erosione dei territori palestinesi attraverso le politiche di insediamento dei coloni ebraici nelle zone più fertili della Cisgiordania, che sembra preludere ad una loro definitiva annessione allo Stato di Israele.
Cosa risulterebbe necessario per risolvere il conflitto?
Dopo il cessate il fuoco, sarebbe necessaria un’immediata iniziativa politica internazionale in grado di riavviare il processo di pace. C’è poi da porre qualche speranza nella mobilitazione di quei movimenti della società civile, sempre più consistenti, che vedono uniti ebrei e palestinesi desiderosi di perseguire vie pacifiche alla soluzione del conflitto, nel segno della coesistenza, anche a dispetto e contro la volontà di chi attualmente li governa.