1921-2021. Cento anni sono passati dalla ‘prima’ dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. È il 9 maggio per la precisione, ma già da tempo ‘i personaggi’ stanno letteralmente ‘picchiando’ sulla fronte dell’autore. Da lì il travagliato parto al Teatro Valle di Roma. Un inequivocabile grido, “manicomio!”, “manicomio!”, accoglie questo dramma tra i più complessi e oscuri dell’autore, e prova ne sono le successive edizioni, ricche di trasformazioni e varianti. Il drammaturgo modifica il testo, lo rende particolarmente mobile e, evidentemente, tiene in debito conto i problemi pratici della messa in scena e le suggestioni provenienti dal dialogo diretto e indiretto con il pubblico e con la critica.
Che si tratti di un’opera difficile – per Pirandello che amava togliere le certezze al pubblico invitandolo a tornare a casa non con il punto fermo ma con il punto interrogativo – non vi è ragione alcuna di dubitare. E non è per scarsa intelligenza o acume degli spettatori. Lo stesso scrittore sente la necessità di aggiungere una Prefazione per spiegare l’opera. E qui è il caso di lasciar parlare per un attimo l’autore:
Ma appunto questo caos, organico e naturale, io dovevo rappresentare; e rappresentare un caos non significa affatto rappresentare caoticamente, cioè romanticamente. E che la mia rappresentazione sia tutt’altro che confusa, ma anzi assai chiara, semplice e ordinata, lo dimostra l’evidenza.
E altrove, a proposito di uno dei personaggi, la Madre:
Non ha il minimo dubbio, lei, di non esser già viva; né le è mai passato per la mente di domandarsi come e perché, in che modo lo sia. Non ha, insomma, coscienza d’esser personaggio; in quanto non è mai, neanche per un momento, distaccata dalla sua ‘parte’’. Non sa di avere una ‘parte’.
Su queste due parole pirandelliane, caos e personaggio – e ‘parte’ che ciascuno di noi recita – vogliamo riflettere, senza addentrarci troppo in una trama che a detta dello stesso autore non ha uno sviluppo logico, non procede ordinata nella sequenza dei personaggi Madre-Padre-Figlio-Figliastra; Padre soprattutto, che soffre il suo ‘personaggio’ e cerca di ribellarsi e rimediare. E non c’è neanche bisogno di intersecare a questa riflessione quella del grande critico Giacomo Debenedetti che ravvisava nell’assenza dei padri il grande dramma della modernità. Ci può senz’altro consolare il fatto che il drammaturgo figlio del nostro sud – figlio che non fu profeta in patria – sia tra i più rappresentati al mondo, da Parigi a Londra, da Buenos Aires a New York. E soprattutto può essere utile, oggi, fare nostre le sue più importanti riflessioni con annessi interrogativi; provare a tenere testa al caos o soccombere? Provare a uscire dal personaggio con la sua maschera – tutti noi ne abbiamo più di una – e il corredo di menzogne che appaiono paradossalmente vere e assurde allo stesso tempo? Su queste domande si posa la pietosa mano di Pirandello, oggi sempre più attuale nell’invitarci a vedere il “Lazzaro” in noi, suscettibile di uscire dal sepolcro. Non quello cristiano, ma quello laico e nondimeno dotato di spiritualità. Il carcere delle nostre esistenze.
È vero che spesso Pirandello ci presenta il personaggio murato o sequestrato, colui che vorrebbe, e non può, uscire dalla prigione – secondo la felice sintesi di un grande esegeta di Pirandello, il pugliese Giovanni Macchia – dalla ‘stanza della tortura’. Ma forse il suo accorato invito, il suo farci vedere il dramma di tanti ‘disajutati’, ‘dimissionari’ e ‘forestieri’ della vita (come era solito definire la maggior parte dei suoi personaggi) può servire in questo momento difficile che stiamo vivendo a credere fermamente nell’ardore e nel desiderio della vita autentica, pur se non scevra da sofferenze. Così disse al conferimento del premio Nobel l’8 novembre 1934:
sentivo il bisogno di credere all’apparenza della vita senza alcuna riserva o dubbio. L’attenzione costante e la sincerità assoluta con cui ho imparato e meditato questa lezione hanno palesato un’umiltà, un amore e un rispetto della vita indispensabili per assorbire delusioni amare, esperienze dolorose, ferite terribili, e tutti gli errori dell’innocenza che donano profondità e valore alle nostre esistenze. Tale educazione della mente, conquistata a caro prezzo, mi ha permesso di crescere e, nel contempo, di rimanere me stesso.
Che sia possibile anche per noi. Oggi più che mai.