Ddl Zan: aperture e prospettive

Il discusso decreto legge ha anche la funzione di conformare finalmente il nostro ordinamento a degli obblighi internazionali

ddl zan
Gianpaolo Maria Ruotolo*

Il Disegno di Legge che porta il nome del deputato Alessandro Zan che ne è il relatore è da tempo sotto i riflettori politici, mediatici e sociale ha subìto attacchi di alcuni e beneficiato di supporto da parte di altri, a seconda delle prospettive politiche e culturali dei suoi osservatori. Esso contempla infatti, la previsione, nel nostro ordinamento, oltre che di una serie di nuovi reati che puniscono gli atti di discriminazione e violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, anche di alcune categorie giuridiche che potrebbero influenzarne il funzionamento più complessivo e che, probabilmente proprio per l’impatto di sistema che poterebbero avere, sono temute da alcuni e auspicate da altri: si tratta di quelle, contenute nel primo articolo del progetto, di sesso, genere, orientamento sessuale e, soprattutto, di identità di genere.

In particolare, quest’ultima rappresenta uno dei passaggi maggiormente attaccati da chi ha assunto posizioni critiche nei confronti del ddl: essa vuol dare rilevanza giuridica e tutela alla percezione che ciascuno ha di sé in quanto maschio, femmina o altro, indipendentemente dal sesso di nascita o dal fatto che lo abbia successivamente mutato, anche chirurgicamente.

Quest’espressione, tanto temuta da alcuni è, in realtà, ormai da tempo, utilizzata di frequente nell’ordinamento internazionale nell’applicazione di trattati sui diritti umani, nel nostro contesto regionale da parte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché nel diritto dell’Unione europea, in una direttiva del 2011, che si occupa di protezione internazionale, in cui l’identità di genere è ritenuta specifico motivo di persecuzione degli immigrati.

Ora, tutto ciò avviene perché i diritti fondamentali, riconosciuti e tutelati dal diritto internazionale – che, per dirla con la plastica espressione di Martt Koskenniemi, professore di diritto internazionale all’Università di Helsinki e autore di un libro che porta proprio questo titolo, sarebbe “il mite civilizzatore delle nazioni” –si applicano, in quanto tali, a tutti gli esseri umani, senza discriminazione per motivi di nazionalità, di luogo di residenza, di sesso, di origine etnica, di colore, di religione, di lingua, o di ogni altro elemento, come l’età, la disabilità, lo stato di salute, l’orientamento sessuale o, appunto, l’identità di genere.

I diritti umani, infatti, sono per loro natura universali, interrelati e interdipendenti, ed è quindi all’interno dei medesimi, e in particolare dei diritti all’uguaglianza e alla non discriminazione, che deve essere individuato il diritto di tutti, e anche di coloro che vantano un’identità di genere “non tradizionale” come le persone LGBTIQ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Intersessuali, Queer),a non essere oggetto di discriminazioni: questo diritto, insomma, è già da tempo contemplato dall’ordinamento internazionale, tanto dal diritto internazionale generale, quanto dal diritto internazionale pattizio dei diritti umani, oltre ad esser stati dichiarato dai treaty bodies delle Nazioni Unite, che hanno confermato che l’orientamento sessuale e l’identità di genere sono inclusi tra i motivi di discriminazione vietati dal diritto internazionale.

Ciò, però, non supera la necessità di prevedere norme statali specificamente dedicate alla tutela di queste posizioni, dal momento che, per un verso, il diritto internazionale, appunto, impone agli Stati specifici obblighi di tutela e, per l’altro, per il fatto che non sempre le norme internazionali sono suscettibili di applicazione diretta negli ordinamenti nazionali, con la conseguenza che esse, spesso, in assenza di una legislazione nazionale che le recepisca, non possono essere invocate dai singoli, ad esempio, dinanzi ad un tribunale nazionale per potersi difendere da comportamenti altrui.

Ebbene, se si legge il DDL Zan in questa prospettiva, esso ha anche la funzione di conformare finalmente il nostro ordinamento a questi obblighi internazionali.

Non è un caso, infatti, che il Parlamento europeo, l’11 marzo 2021, abbia adottato una risoluzione che riconosce il diritto di tutti di godere ovunque, sul territorio dell’Unione, della libertà di vivere e mostrare pubblicamente il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere senza timore di intolleranza o persecuzioni, e afferma l’obbligo delle autorità degli Stati membri, a tutti i livelli di governance, di adottare misure idonee a raggiungere questo obiettivo.

La necessità di norme interne specificamente volte a garantire tale tutela appare ancora più pressante se si pensa che, ancora oggi, molti Stati membri dell’Unione Europea non dispongono di leggi in materia di non  tutelino l’identità di genere rispettando quantomeno gli standard minimi dell’Unione, che proteggono le persone dall’incitamento all’odio e dalla violenza basata sull’orientamento sessuale. Anzi, alcuni di essi, come la Polonia e l’Ungheria, si sono addirittura dotati di normative discriminatorie, le quali, ad esempio, contemplano una definizione molto ristretta e tradizionale di famiglia.

Insomma, la previsione esplicita di un modello identitario includente come quello contemplato dal DDL Zan non solo sarebbe del tutto compatibile con il quadro giuridico internazionale ed europeo, ma, se vista in quel contesto, potrebbe scoprirsi addirittura dovuta, al fine di conformare l’ordinamento italiano agli obblighi internazionali ed europei di cui abbiamo detto, anche in considerazione del fatto che la nostra Costituzione prevede l’obbligo, per il Parlamento, di legiferare nel rispetto di tali obblighi.

 

*Docente di Diritto internazionale