Sotto le bombe russe insieme all’umanità muore anche il diritto umanitario

Il punto sull'attualità del Prof. Picciaredda

Sotto le bombe russe
Stefano Picciaredda

Occorre rassegnarsi a che la guerra sia inevitabilmente un barbaro massacro che stermina innocenti, donne, bambini, civili, che costringe la popolazione di intere città a vivere sotto assedio, nascosta sottoterra nell’incubo dei bombardamenti mentre le riserve di acqua, cibo, farmaci si esauriscono insieme alla disponibilità di energia? È la realtà dell’Ucraina odierna, cui guardiamo con sgomento e dolore da più di un mese. No, tutto questo non si può accettare. È da più di un secolo e mezzo che qualcuno ha cominciato a ribellarsi a questo tipo di guerra. Che nel corso del ventesimo secolo ha colpito in una percentuale sempre maggiore i civili, dal 30 % della Grande Guerra (1914-1918) al 90% della “prima guerra mondiale d’Africa” per il controllo del Congo (1994-2001, cinque milioni di vittime).

Mettere regole alla guerra, porre limiti, proteggere i civili e le vittime, i soldati fatti prigionieri, i malati e i feriti. Questo è l’obiettivo del diritto internazionale umanitario, concepito e promosso dai fondatori e dai responsabili del Comitato internazionale della Croce Rossa di Ginevra (Cicr) a partire dal 1864. 
Sono servite due guerre mondiali, decine di milioni di vittime, distruzioni inenarrabili e mai accadute nella storia per convincere i governi a prendere impegni per la protezione dei civili in tempo di guerra. Tra le Convenzioni di Ginevra del 1949 ce n’è finalmente una, la quarta, tutta dedicata alla salvaguardia dei civili. L’hanno sottoscritta e ratificata, ad oggi, 146 paesi. Russia e Ucraina sono stati tra i primi. È un testo fondamentale, un punto di svolta. Una corazza a protezione degli innocenti. 
Prevede, per esempio, che si creino “zone e località sanitarie di sicurezza”, nei paesi teatro di conflitti, neutralizzate e protette internazionalmente, dove trasferire “feriti, malati, infermi, anziani, fanciulli sotto i quindici anni, donne incinta e madri di bambini di età inferiore ai sette anni” (art. 14), nonché tutti i “civili che non partecipano alle ostilità e che non compiono alcun lavoro di carattere militare” (art.15).

C’è l’impegno a rispettare e proteggere gli ospedali civili, a facilitare lo sgombero dei civili verso le zone sicure, a permettere ponti aerei e stradali per il “libero passaggio di qualsiasi invio di farmaci e materiale sanitario, oggetti necessari alle funzioni religiose, capi di vestiario, viveri indispensabili” (art. 23). E poi molto altro, nei 159 articoli estremamente dettagliati che compongono la Convenzione. 
Oggi queste norme, in Ucraina, sono lettera morta. 
Eppure la loro applicazione potrebbe salvare migliaia di vite.  
È certo scandaloso che la Russia calpesti regole basilari che essa stessa ha contribuito a concepire e che si è impegnata a rispettare, oggi seppellite in nome di scellerati obiettivi bellici.

Ma sorprende e addolora che anche nel dibattito pubblico, interno e internazionale, nelle negoziazioni, negli interventi diplomatici, i richiami alle Convenzioni di Ginevra e al diritto internazionale umanitario siano quasi del tutto assenti. Si preferisce discettare di armamenti, scenari, strategie, alleanze, sostegni e coinvolgimenti militari, e poco o nulla si ragiona sulle vie concrete e praticabili – oltre ovviamente all’accoglienza a quanti riescono a lasciare il paese – per mettere in salvo quanti più civili possibile. 
In questi giorni il presidente del Cicr Maurer ha fatto la spola tra Mosca e Kiev per ricordare e invocare il rispetto del diritto umanitario. Uno sforzo che non  è valso un trafiletto sui giornali né un minuto in uno dei tanti talk dedicati alla guerra. Forse non andrebbe lasciato così solo. 
 

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