Cento giorni di isolamento. L’Afghanistan dei taliban e noi

Una riflessione del prof. Picciaredda, docente di Storia Contemporanea

Cento giorni di isolamento. L’Afghanistan dei taliban e noi
Stefano Picciaredda

Son passati cento giorni dal ritorno dei taliban a Kabul e dal frettoloso ritiro delle forze statunitensi e occidentali dall’Afghanistan. In quei giorni tra agosto e settembre le attenzioni del mondo si sono concentrate su questo paese dalla storia incredibilmente travagliata, costellata per mezzo secolo di conflitti e tensioni, con una breve parentesi di pace negli anni Settanta del Novecento. Poi i riflettori si sono gradualmente spenti, e l’emozione e il turbamento per le violenze diffuse, la sistematica compressione dei diritti delle donne, il disprezzo della cultura e dei diritti più elementari, si sono sopiti. Lo stesso accade per tante altre situazioni problematiche aperte in un mondo agitato, delle quali i media si occupano per un breve periodo per poi passare rapidamente ad altro, assecondando e aggravando la nostra incapacità di restare concentrati su qualcosa, nella fretta di voltar pagina per provare nuove sensazioni ed emozioni. Succede, così, che di tanti drammi del pianeta si perda cognizione. 

Cosa ne è del conflitto siriano, che entrerà presto nel suo undicesimo anno? Cosa accade nel Libano multietnico colpito dalla crisi finanziaria ed energetica? Dove sono finiti i profughi sudamericani in marcia verso gli Stati Uniti, e i bambini separati dalle famiglie al confine con il Messico? Esiste ancora il Daesh? Per non parlare delle “guerre dimenticate”, quelle di lungo periodo che forse non hanno mai fatto notizia, in Sud Sudan, Yemen, nel Camerun anglofono o quelle più recenti in Etiopia e in Sudan. D’accordo – obietterà qualcuno –, ma non ci si può mica occupare delle vicende di tutto il mondo!
La mattina del 30 agosto, in piena crisi afgana, un ascoltatore di Radio Rai domandava agli ospiti della trasmissione cosa debba importare a noi di quello che succede dall’altra parte del mondo. Il conduttore affermava che un diluvio di messaggi social ponevano la stessa questione. Dietro l’apparente rozzezza di queste posizioni si nasconde una questione di grande rilevanza. In quella domanda infatti non c’è solo l’espressione di uno stanco menefreghismo tardoestivo, ma una profonda contestazione ai grandi ideali novecenteschi: crediamo ancora nell’universalità dei diritti umani, o quella dichiarazione è un’utopia ormai desueta, o peggio il tentativo di un piccolo pezzo di mondo di imporre a tutti valori che contrastano altre tradizioni, tutte rispettabili? Esiste una responsabilità delle società dotate di maggiori risorse nei confronti delle crisi umanitarie che si aprono nel pianeta? È ancora praticabile la solidarietà internazionale in tempi di crisi globale?

Nel frattempo, l’Afghanistan precipita. L’interruzione dei finanziamenti esterni (che sostenevano più di tre quarti della spesa pubblica) e il congelamento dei depositi governativi all’estero, decisi per forzare il nuovo regime al rispetto dei diritti, hanno provocato una crisi acuta: mancano cibo e medicine, il personale sanitario non è retribuito, gli ospedali e le scuole chiudono, mentre le violenze e gli attentati dell’Isis-K continuano. 
Certo, non ci si può occupare di tutti i problemi del mondo. Ma tra il pensar questo e il non far nulla ce ne passa. Per cominciare, allora, si potrebbe intervenire sui giovani afghani stranded, bloccati nell’isola greca di Lesbo ormai da anni, senza nulla, in condizioni disumane: non possono tornare indietro, non possono entrare in Europa. Sono meno di duemila, e distribuendoli tra i Ventisette dell’Unione si farebbe presto a trovare una soluzione. Ma prima occorre decidere chi vogliamo essere. 
 

visita il sito di unifg

Ti interessa anche