Sul giorno della memoria: un editoriale di Stefano Picciaredda
“Chi non ha memoria del passato è condannato a ripeterlo”, ammoniva Primo Levi. Ricordare la Shoah è essenziale. Fermarsi, una volta all’anno, per riflettere e interrogarsi su quello che è stato, interrompendo il flusso di occupazioni e preoccupazioni che tutti assorbe, non è un esercizio vuoto. Il “giorno della memoria” irrompe un po’ improvviso, così come accadde a milioni di donne e uomini privati prima dei diritti e poi della vita: ebrei, rom, oppositori, vite “non degne di essere vissute”. I sopravvissuti stanno inesorabilmente scomparendo, e l’eredità sofferta della loro testimonianza è un mantello da raccogliere. Le giovani generazioni hanno diritto di sapere. A chi ritiene si sia già fatto abbastanza per ricordare lo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale direi che la tentazione dell’oblio e dell’indifferenza è sempre incombente. E che razzismo e antisemitismo non sono un fatto del passato ma un’emergenza del presente.
Ma davvero ci riguarda la tragedia di Auschwitz, 77 anni dopo l’apertura dei suoi cancelli e il disvelamento del “terribile segreto” (Laqueur) che tale poi non era? Da un punto di vista storico è un errore blu considerare la Shoah il prodotto di menti violente e criminali, consumato in segreto da un gruppo ristretto di esecutori. Non andò così. Le intenzioni del nazismo di realizzare la “soluzione finale” erano scritte nero su bianco in un modo che più esplicito non si potrebbe nel Mein Kampf, pubblicato nel 1925. Negli anni successivi Hitler non si era sottratto alle domande (poche) di chiarimenti che specie la stampa anglosassone gli poneva, confermando l’obiettivo dell’eliminazione fisica. Il crescendo delle misure antiebraiche era sotto gli occhi di tutti, in Germania, in Italia e altrove. Soprattutto, la “macchina” dello sterminio, impresa ciclopica che prevedeva il reperimento, l’arresto, la deportazione e l’uccisione di circa dodici milioni di ebrei europei di ogni età e condizione, necessitò di collaborazioni e complicità, e coinvolse decine di migliaia di persone che non facevano certo parte della cerchia dei dirigenti SS.
Ce lo spiega, tra gli altri, Germaine Tillon, resistente francese deportata a Ravensbruck, il campo delle donne, descrivendo le Aufseherin, le guardie del lager:
Non erano tutte volontarie, tra loro c’erano anche delle civili mobilitate, costrette a quel lavoro dalla legge senza averlo scelto. Molte non erano mai state iscritte al partito nazista. Controllori del tram, operaie, cantanti d’opera, infermiere diplomate, parrucchiere, contadine, ragazze borghesi che non avevano mai lavorato, istitutrici in pensione, cavallerizze del circo, ex guardie carcerarie, vedove di ufficiali, ecc. Le nuove arrivate avevano l’aria generalmente confusa al loro primo impatto col campo, e ci mettevano un po’ per raggiungere lo stesso livello di crudeltà e depravazione delle anziane. Per certe di noi era un gioco piuttosto amaro cronometrare quanto tempo impiegava una nuova Aufseherin a raggiungere la sua massima brutalità. A una piccola Aufseherin di vent’anni che, il giorno del suo arrivo, conosceva talmente poco le maniere del campo che diceva “scusate” passando davanti a una prigioniera, e che era rimasta visibilmente sconvolta dalle prime brutalità che aveva visto, ci vollero esattamente quattro giorni per assumere quello stesso tono e quegli stessi modi che all’inizio le erano chiaramente del tutto estranei. Per le altre, si può dire che una o due settimane, un mese al massimo, erano la normale media di adattamento (Ravensbrück, Roma 2012, p. 122).
Quelle ragazze erano cresciute dentro un clima, non solo tedesco ma di tutta l’Europa dell’epoca, segnato dal senso di superiorità, da visioni razziali e gerarchiche, dal darwinismo sociale, dall’eugenetica, dal razzismo scientifico. Era cresciuto ed era stato coltivato un mostro senza che i contemporanei se ne rendessero conto. Che ha fatto sì che persone normali, simili a ciascuno di noi, appartenenti alla civiltà più progredita dell’epoca dal punto di vista culturale, scientifico, tecnologico, economico, si siano trasformate in carnefici. Farne memoria è il vaccino di cui l’Europa oggi ha bisogno: la storia non si ripete mai uguale, ma il confine della disumanità è talvolta un filo sottile.