Il diverso impatto nell’ordinamento interno del diritto della Convenzione EDU e di quello dell’Unione europea. La manualistica italiana insegna che il proces-so di europeizzazione del diritto penale si è storicamente sviluppato dentro un duplice quadro normativo, segnato, da un lato, da quella che – stando a una certa lettura – viene definita “piccola Europa”; dall’altro, da quella che, per converso, è denominata “grande Europa”.
Secondo questo approccio, al primo apparterrebbero, oltre alle norme dei Trat-tati UE, anche il diritto dell’Unione europea e della Corte di giustizia; al secon-do quello contenuto nelle disposizioni della Convenzione EDU, cui si aggiun-gerebbero le decisioni del Consiglio d’Europa e della Corte dei diritti dell’uomo.
Ma al di là delle dimensioni del quadro di riferimento, il dato che appare fuori discussione è il seguente: il diritto europeo – ancorché con gradazioni diverse - incide (e verosimilmente continuerà sempre più in futuro ad incidere) sul dirit-to penale nazionale.
Se guardiamo alla fase storica in corso ci accorgiamo di una duplice netta diva-ricazione (che ovviamente non vale solo per la materia penalistica).
Mentre il diritto della “piccola Europa” irrompe nell’ordinamento interno at-traverso rinunce a “pezzi” di sovranità consentite allo Stato dall’art 11 Cost., quello della “grande Europa” si impone invece per mezzo di vincoli alla potestà legislativa del Parlamento previsti dall’art. 117 Cost., che possono derivare (tra gli altri anche) da obblighi internazionali contratti dallo Stato nei confronti di istituzioni sovraordinate.
Prima di affrontare sia pur brevemente cause ed effetti di questa dicotomia - che, giova ribadirlo, pur attraverso percorsi diversi mira (per lo meno apparen-temente) al conseguimento del medesimo risultato: e cioè consentire alla legi-slazione domestica il recepimento del diritto prodotto fuori dai confini - vale la pena tuttavia sottolineare come le “chiavi” (e cioè gli artt. 11 e 117 Cost.) che hanno consentito l’”apertura delle frontiere” siano state (per così dire) “conse-gnate” (rispettivamente alla “piccola” e alla “grande” Europa) dalla nostra Corte costituzionale. È frutto infatti di una copiosa produzione giurisprudenziale mes-sa in campo dal Giudice delle leggi a partire dagli anni Sessanta l’assetto oggi finalmente raggiunto dai rapporti tra il nostro ordinamento e quelli europei (“piccoli” e “grandi”).
Perché nell’un caso la Consulta “sceglie” l’art. 11 e nell’altro l’art. 117 Cost. per “aprire le frontiere”?
La ragione è da ricercare verosimilmente nelle diverse conseguenze derivanti dalla “scelta”. Nella prima, a fronte del conflitto tra la norma interna e quella europea, il giudice può disapplicare quella interna e decidere il caso venuto al suo esame sulla base del (solo) diritto sovranazionale (senza tenere in alcun conto il diritto interno), con il solo (contro-) limite dei principi (costituzionali) supremi dell’ordinamento; nel secondo, invece, il giudice non può “disapplica-re” ma deve impugnare la norma interna confliggente col diritto europeo davan-ti alla Corte costituzionale, denunciandone l’illegittimità e sollecitandone lo scrutinio ai sensi dell’art. 117 Cost.
Conclusione. Mentre nell’un caso il giudice ordinario risolve “in proprio” il conflitto, nell’altro la decisione è devoluta ad altra autorità.
Qual è la ragione di questa “scelta”? Perché in un caso sì e nell’altro no? Per-ché in un caso ci si fida della valutazione del giudice ordinario (che può “sce-gliere” la norma da applicare) e nell’altro invece c’è bisogno che la “scelta” sia devoluta all’apprezzamento della Corte costituzionale?
Ipotesi. Perché mentre si paventa che l’interpretazione giurisprudenziale della Convenzione EDU possa estendere eccessivamente l’ambito delle garanzie e delle libertà fondamentali, mettendo a repentaglio la “tenuta” del sistema, quel-la dei Trattati non presenterebbe invece (per lo meno apparentemente) un simi-le rischio. Quei Trattati, infatti, di norma non si occupano di temi “dirompen-ti” legati ai diritti fondamentali, concentrati come sono soprattutto su questioni di natura prevalentemente economica e di mercato.
Breve. Attraverso l’art. 11 Cost. (lo ha affermato nel 1984 la Corte costituziona-le decidendo il famoso caso Granital) entrano nell’ordinamento interno i prov-vedimenti normativi europei direttamente applicabili come i Regolamenti e le Direttive europee (con termini scaduti e) sufficientemente dettagliate. Attraverso l’art. 117 Cost. fanno invece il loro ingresso i principi contenuti nella Conven-zione EDU e l’interpretazione di essi fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Questi principi non sono però self-executing come certe norme UE, tant’è che le disposizioni interne con essi confliggenti non sono direttamen-te disapplicabili dal giudice ordinario. Il conflitto può però essere denunciato alla Consulta per violazione dell’art. 117 Cost., in quanto trattasi di principi ri-chiamati dalla suddetta disposizione quali “parametri interposti” sub-costituzionali alla stregua dei quali procedere al vaglio di legittimità: beninteso, a condizione che il Giudice delle leggi (stavolta in base al complesso delle nor-me costituzionali, ivi comprese quelle a contenuto “organizzatorio”) verifichi la compatibilità del diritto convenzionale “interposto” con la Carta fondamentale.
Le rispettive sfere di competenza della Corte di giustizia europea e della Cor-te europea dei diritti dell’uomo. La soluzione accolta sembrerebbe a questo punto chiara.
L’actio finium regundorum elaborata nel corso dei decenni dalla giurisprudenza della Corte costituzionale riuscirebbe, attraverso il meccanismo sopra descritto, a marcare con sufficiente precisione le rispettive aree di competenza dei due settori del diritto europeo che potrebbero in quest’ottica rappresentarsi come altrettanti cerchi concentrici non interferenti l’uno con l’altro.
Senonché, sul fatto che tutto sia veramente chiaro e che le cose stiano realmente così è lecito avanzare più di una perplessità.
È noto come, già a partire dalla fine degli anni Sessanta, si affermi una giuri-sprudenza della Corte di giustizia europea che fa del riferimento ai “diritti fon-damentali che fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunita-rio” il proprio marchio di fabbrica. “Diritti fondamentali” successivamente tra-dotti nel leit motiv delle “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fa-centi parte della struttura e delle finalità della Comunità”.
L’impressione è che la Corte di giustizia non resista alla tentazione di occuparsi di questioni che “a prima vista” – proprio per le loro caratteristiche – sembre-rebbero destinate ad essere più appannaggio della competenza della Corte dei diritti dell’uomo che non di quella dei giudici di Lussemburgo.
E’ vero però che obiezioni critiche come quella che precede potrebbero incor-rere nell’accusa di eccessivo schematismo. A guardare da vicino i casi in cui la Corte di giustizia adopera un linguaggio che in qualche modo evoca la materia della tutela dei “diritti dell’uomo” ci si accorge in realtà che essi forse non meri-tano l’accusa di “indebiti sconfinamenti”. Non tragga in inganno il richiamo ai “diritti fondamentali” o alle “tradizioni costituzionali comuni” per far pensare ad una Corte di giustizia che esorbiti arbitrariamente l’ambito delle proprie competenze. Si tratta infatti di tecnica meramente “argomentativa” di cui la giu-risprudenza della Corte si è più volte storicamente servita per decidere casi in cui a venire in rilievo erano, non tanto profili di responsabilità penale (come la materia dei diritti fondamentali coinvolti potrebbe in un primo momento far pensare), quanto piuttosto esigenze di “non discriminazione” , legate ad esem-pio alla nazionalità o allo svolgimento di attività sindacali da parte di cittadini di Stati membri, come pure ipotesi di denuncia di “pretese” violazioni del diritto di proprietà, della libertà di iniziativa economica o della correttezza e lealtà del-la concorrenza.
Sono proprio le due linee principali (accanto a quella ormai “classica” dell’emergenza) che Francesco Palazzo bene individuava in una bellissima lec-tio magistralis svolta all’Università di Firenze il 23 febbraio 2018 dedicata a “La recente legislazione penale”: da un lato, la tutela dell’economia, sia in relazione agli interessi finanziari pubblici sia sotto il profilo della salvaguardia del merca-to, che impone parità di condizioni tra i concorrenti e rispetto delle regole del gioco; dall’altro, la difesa della persona (intesa non tanto nel senso dell’Uomo come “singolo” o come “essere umano”, quanto piuttosto) sub specie dignitatis, nella prospettiva del surplus di disvalore determinato da comportamenti di-scriminatori.
Nessuno “straripamento”, quindi. Siamo sempre ampiamente all’interno del recinto segnato dalla materia (che al tempo poteva ancora dirsi) comunitaria. Anche se – lo vedremo più avanti - non sarebbero poi mancati negli anni a ve-nire esempi in cui la Corte di giustizia avrebbe finito con l’impersonare (anche) un ruolo sempre più simile a quello spettante alla Corte dei diritti dell’uomo.
Nessuna “trattatizzazione” delle disposizioni della Convenzione EDU e di quel-le della Carta di Nizza. Il problema dell’actio finium regundorum tra le materie di competenza delle Corti torna prepotentemente al centro dell’attenzione del dibattito con la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata una prima volta nel 2000 a Nizza e una seconda volta, in una versione adattata, a Strasburgo nel 2007. E poi con il Trattato di Lisbona del 2007 entrato in vi-gore nel 2009.
Vediamo di cosa si tratta.
L’art. 6 del Trattato di Lisbona (TUE) stabilisce, tra l’altro, che i diritti fonda-mentali garantiti dalla Convenzione dei diritti dell’uomo fanno parte integrante del diritto dell’Unione.
A “prendere sul serio” il disposto del predetto articolo, la conseguenza sarebbe che le norme interne confliggenti con quei diritti risulterebbero ex art 11 Cost. direttamente disapplicabili dal giudice nazionale, senza bisogno, per essere abrogate, di passare al controllo di legittimità della Corte costituzionale per con-trasto con l’art 117 Cost.
Se così fosse, si tratterebbe di una vera rivoluzione. Il giudice ordinario in caso di conflitto potrebbe sempre decidere “in proprio” quale sia la norma applicabi-le al caso concreto, senza essere tenuto a rivolgersi al Giudice delle leggi.
La questione in realtà si era già posta al tempo della vigenza del Trattato di Am-sterdam e ancor prima di quello di Maastricht che, giova ricordarlo, all’art. 6 conteneva una norma simile a quella che sarebbe stata poi inserita nel Trattato di Lisbona.
Le sentenze “gemelle” pronunciate dalla Corte costituzionale nel 2007 (così come la giurisprudenza successiva) avrebbero definitivamente “chiuso” la que-stione ribadendo che non si sarebbe verificata alcuna “trattatizzazione” delle norme CEDU.
La posizione della Corte costituzionale sul punto è inequivocabile.
Nonostante l’entrata in vigore della Carta di Nizza e del Trattato di Lisbona, i giudici italiani “devono”, ad avviso della Consulta, continuare a muoversi sulla falsariga del “vecchio” (e ormai consolidato) assetto che da decenni regola la materia dei rapporti tra ordinamento nazionale e normativa europea.
“Con l’adesione ai Trattati (…), l’Italia è entrata a far parte di un ‘ordinamento’ più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La Convenzione EDU, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilate-rale da cui derivano ‘obblighi’ per gli Stati contraenti, ma non (….) norme (di-rettamente) vincolanti (…) né limitative della sovranità nazionale” .
Nulla cambia rispetto al passato. Le norme interne in conflitto con quelle dell’Unione continueranno ad essere “disapplicate” dal giudice nazionale; per quelle, invece, contrastanti con la Convenzione ci sarà la solita possibilità di ri-correre alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost.
“Disapplicazione” e giurisprudenza della Corte di giustizia europea. L’interrogativo che a questo punto si pone è il seguente: siamo sicuri che le norme interne degli Stati europei in contrasto con le disposizioni CEDU non possano mai essere “disapplicate”? E siamo sicuri che in caso di conflitto non ci sia altra via se non quella di denunciarle ai competenti organi di giustizia co-stituzionale?
Che la disapplicazione sia questione che non riguardi le norme interne lesive dei diritti riconosciuti dalla Convenzione è un refrain della cui fondatezza è leci-to dubitare. D’altra parte, sono le stesse sentenze “gemelle” che, nel “ridisegna-re” la gerarchia delle fonti, richiamano espressamente in motivazione quell’orientamento giurisprudenziale (di merito e di legittimità, tra cui figura financo una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione) - diffusosi con un certo successo negli anni Novanta e proseguito ancora oltre il Duemila - secon-do cui “si è creduto di poter trarre da un asserito carattere sovraordinato della fonte CEDU la conseguenza che la norma interna successiva, modificativa o abrogativa di una tale fonte, fosse inefficace, per la maggior forza passiva della stessa fonte CEDU, e che tale inefficacia potesse essere la base giustificativa del-la sua non applicazione da parte del giudice comune” .
Ma non è tutto. La giurisprudenza della Corte costituzionale successiva alle sen-tenze “gemelle” non esclude affatto, sia pure in via meramente incidentale, la possibilità di una simile “disapplicazione” . A una condizione però: che la “di-sapplicazione” riguardi norme interne disciplinanti fattispecie rientranti nelle materie di competenza dell’Unione Europea confliggenti con la CEDU (cosa che nel caso di specie non era, trattandosi di questione processual-penalistica riguardante il c.d. giudizio abbreviato e la possibilità di sostituzione della pena dell’ergastolo con quella della reclusione).
Per concludere, un ultimo interrogativo.
A fronte di fattispecie rientranti nelle materie di competenza dell’UE, è possibi-le congetturare che il giudice nazionale, nel decidere la questione, si spinga fino al punto da disapplicare un Regolamento o una Direttiva europea self-executing (o anche una norma interna attuativa di una Direttiva) allorquando si inneschi un conflitto con la fonte CEDU?
Ancorché nella prassi non siano mancati casi simili, non è successo tuttavia – almeno per quanto è dato sapere (ma confesso di non conoscere la giurispru-denza degli altri Paesi dell’Unione) – che giudici nazionali abbiano mai optato per una soluzione così radicale.
Qual è stata allora la strada scelta per la soluzione del conflitto?
Risposta: sospensione del processo e quesito inviato alla Corte di giustizia euro-pea, cui spetta il monopolio dell’interpretazione del diritto dell’Unione (ex art. 267 TFUE).
E cosa ha risposto la Corte di giustizia?
C’è una sola parola per esprimere l’atteggiamento tenuto in questi casi dai giu-dici di Lussemburgo: disapplicazione. Essi infatti, nel conflitto tra la normativa interna attuativa di una Direttiva europea e i principi CEDU, hanno stabilito che i giudici nazionali dovessero disapplicare la prima.
E’ quanto avvenuto, ad esempio, in tema di pesca, in un’ipotesi di sconfina-mento di un’imbarcazione danese nelle acque territoriali inglesi, in cui la CGE ha imposto a un Tribunale britannico di disapplicare una direttiva europea re-cepita dalla legislazione nazionale per dare piena attuazione al divieto di retroat-tività in materia penale, così motivando: “Il principio della retroattività delle norme penali è un principio comune a tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, sancito dall’art. 7 CEDU (…), che fa parte integrante del diritto di cui la Corte deve garantire l’osservanza” .
Lo stesso dicasi con riguardo al caso della violazione di una Direttiva (recepita dall’ordinamento interno) contenente disposizioni per la sicurezza sui luoghi di lavoro in cui la Corte ha intimato ad un giudice italiano di riconoscere la “pre-valenza” del principio del divieto di analogia in materia penale (in quanto “san-cito dall’art. 7 CEDU”) sulla normativa europea con quello confliggente, “co-stringendolo” a disapplicarla .
Non solo. Recente giurisprudenza ha confermato la tendenza della Corte di giu-stizia a decidere questioni attinenti alla sfera dei diritti fondamentali anche quando questi non riguardino fattispecie direttamente disciplinate dal diritto dell’UE.
Con la sentenza 14 gennaio 2021 , la CGE ha ordinato ad un giudice bulgaro la disapplicazione dell’art. 242, parr. 7 e 8, del codice penale nazionale - che auto-rizzava la confisca di beni utilizzati per la commissione di un reato anche nei confronti del terzo proprietario in buona fede - per contrasto con gli arrt. 17 (comma 1) e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (c.d. Carta di Niz-za), stante il conflitto della disciplina codicistica con i diritti della difesa e della proprietà.
Vedremo se questo filone (al momento decisamente minoritario) della giuri-sprudenza della Corte di giustizia - che sembra “trattatizzare” le disposizioni della Carta e per questa via, chissà, forse anche quelle della CEDU - avrà in fu-turo ulteriori sviluppi: si ricordi infatti che, sebbene le norme CEDU non risul-tino espressamente richiamate dalla pronuncia in questione, tuttavia l’art.6 della Convenzione e l’art. 1 del Primo Protocollo aggiuntivo prevedono e garantisco-no rispettivamente – come del resto i sopra citati artt. 17 e 47 della Carta – tan-to il diritto di difesa quanto il diritto di proprietà.