Con un intervento dal titolo "Grammamanti: la felicità passa dalle parole" la sociolinguista Vera Gheno ha preso parte, domenica 6 novembre, alla rassegna organizzata da Musica Civica al Teatro Umberto Giordano di Foggia.
Vera Gheno, accademica, linguista, saggista e traduttrice italiana, si è occupata negli anni di linguaggio di genere oltre che di sviluppo e cambiamento del linguaggio, argomenti che ha saputo trattare con sapienza in tutti i suoi libri. Seguitissima anche sui canali social, riscuote successo e sta diventando sempre più un punto di riferimento per chiunque voglia conoscere a fondo la nostra lingua e le sue evoluzioni. Nell'evento al Teatro Giordano ha potuto parlare a cuore aperto del suo grande amore, quello per la lingua appunto, prima di dare spazio al talento di Sergej Krylov e al suo eccezionale assolo di violino.
Con il pubblico foggiano ha voluto raccontare di come e quando il linguaggio sia nato, di come l'uomo ne abbia guidato lo sviluppo rendendosi protagonista di tutti i suoi usi e cambiamenti. Citando, con commozione e ammirazione, il suo maestro Tullio De Mauro, ha tracciato un percorso nell'evoluzione linguistica riprendendo anche Dante, Antonio Gramsci, Italo Calvino e Bruno Migliorini. Le loro idee sono risultate utili a chiarire quanto importante sia conoscere la lingua, utilizzarla nel modo migliore in ogni sua sfumatura e diventare quindi Grammamanti, ovvero essere realmente aperti alla possibilità di poter dire e definire le cose nel modo più diverso.
Prima dello spettacolo la sociolinguista ha chiacchierato di linguaggio anche con Unifgmag, dando vita ad un'intervista colma di spunti interessanti.
- La discussione, sopratutto attuale, del linguaggio e sul linguaggio è a tutti gli effetti una questione politica. Pensi che la concentrazione della questione linguistica su un livello politico possa aver spostato l’attenzione da ciò che poi è veramente, cioè una questione di lingua italiana e di linguaggio?
L’enfasi politica in realtà non è nuova. È dalle "Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana"di Alma Sabatini, del 1986, che si ragiona sulle relazioni tra lingua e politica. Inoltre non vedo che ci sia uno spostamento di focus perché ogni nostra scelta linguistica è politica, ogni volta che noi apriamo bocca operiamo un posizionamento in base a un’ideologia, ai nostri mondi di riferimento, alla nostra enciclopedia di saperi. Non ci sono quindi usi linguistici che siano innocenti o privi di ideologia. Quello che è successo recentemente è che la persona che ha conquistato il potere in Italia ha fatto una scelta linguistica che devia dalla tendenza linguistica generale di usare sempre più i femminili e questa cosa ha sollevato più rumore, ma in realtà Giorgia Meloni non ha fatto nulla di diverso rispetto a ciò che hanno fatto molte donne politiche di destra prima di lei, quindi anche lo stupore è abbastanza buffo.
- Tu ti sei occupata moltissimo dello Shwa, simbolo linguistico che è entrato a far parte della nostra lingua. Quello che stupisce è che anche la discussione su questo nuovo simbolo sia diventata eccessiva anche da un punto di vista politico. Pensi che la paura di un cambiamento linguistico, che di fatto offre solo una nuova possibilità a livello di linguaggio, nasconda da un punto di vista sociologico una paura più generica di cambiamento?
L’essere umano è tendenzialmente sempre renitente al cambiamento, non lo prende mai con serenità soprattutto quando riguarda una questione così fortemente identitaria come il linguaggio. Lo shwa si presta bene a una discussione molto polarizzata perché alla maggior parte delle persone non interessa nulla, non sono toccate dalla questione del linguaggio ampio perché appunto non li riguarda da vicino. Non ne sono stupita, quello che è disdicevole non è che ci siano tante persone avverse a una sperimentazione linguistica, quanto che anche persone molto intelligenti e sulla cui preparazione non ho alcun dubbio abbiano deciso di creare un argomento fantoccio che è quello dell’innovazione a tavolino calata dall’altro. Lo shwa non è un’innovazione a tavolino, non è calato dall’alto e soprattutto non viene imposto a nessuno, è semplicemente un esperimento linguistico che una piccola comunità, che è quella LGBTQIA+, cioè quella più esposta alla presenza di persone di genere non conforme, si è inventata nel corso degli ultimi dieci, quindici anni. Quindi anche tutto questo movimento in realtà è eccessivo e secondo me nasce dall’assenza di problemi altri di cui occuparsi.
- Pensi sia probabile che la percezione dello shwa come qualcosa di calato dall'alto derivi anche da un difetto di narrazione, anche e forse soprattutto da parte dei media?
C’è un gigantesco problema di narrazione. Un problema che torna spesso sui media italiani è che raramente le persone vanno alle fonti. Al di là della questione Shwa che mi tocca personalmente, ma lo vediamo continuamente. Notizie spacciate per vere che si scoprono false, video vecchi di dieci anni spacciati per nuovi, molto spesso succede che le fake news o le notizie date in maniera imperfetta abbiano un giro spaventoso perché nessuno di nessuna redazione si prende davvero la briga di controllare e di andare davvero alle fonti primarie. Con lo shwa è andata un po’ così, poi chiaramente tutta la questione diventa rilevante in un contesto sociale in cui nei confronti della diversità c’è molta poca comprensione, abbiamo un background cattolico fortissimo che in maniera implicita o esplicita guida il nostro modo anche di leggere queste cose e quindi si tende a pensare che quella dell’identità di genere sia una moda. Basterebbe anche solo guardare anche all’estero per capire che non lo è.
- C’è un problema, secondo te, anche a livello di sistema formativo? Nelle scuole e nelle università che cosa manca sotto questo punto di vista?
Quello che manca a livello di educazione è cercare di creare una competenza meta-linguistica, nel senso che le domande che non si fanno a scuola sono tipo “da dove viene una lingua?”, “come si forma?”, “perché parliamo nel modo in cui parliamo?”, “perché ci sono tante lingue al mondo?”, “cosa vuole dire cambiare la lingua e da dove viene il cambiamento?”. Mancando queste informazioni base sul funzionamento del sistema lingua poi ogni possibile cambiamento viene vissuto come un’onta, un’offesa, una minaccia a uno status quo. Ma in realtà non esiste uno status quo linguistico, la lingua è uno strumento che noi usiamo nella nostra quotidianità per definire noi stessi, le nostre relazioni e il mondo circostante. E quindi è assolutamente naturale che in un Panta Rei, in cui tutto scorre, anche la lingua scorra.
- Il tuo intervento all'interno della rassegna Musica Civica ci porta anche ad una riflessione sulla musica e sull'arte. Quanto è importante, anche per la nuova generazione, capire l’importanza del legame tra lingua, linguistica, tutto quello che si dice e arte?
Io non vedo limiti, non vedo fossati particolari tra i vari tipi di cultura. In uno dei miei libri parlo del fatto che l’ideale sarebbe avere una dieta culturale varia, senza pregiudizi, dalla serie tv al giallo fino a Dostoevsky, dalla musica classica alla trap, fino al fumetto senza pregiudizi. Il pregiudizio è ciò che poi ci frega, perché pensiamo di avere bisogno solo di un certo tipo di cultura, quando in realtà più fruiamo di prodotti differenti senza pregiudizi più la nostra mente si apre. Quindi il connubio musica classica-lingua io lo vedo benissimo, giustificabile e bello.
La rassegna Musica Civica, in convenzione con il Consiglio degli Studenti dell'Università di Foggia, offre agli studenti Unifg biglietti gratuiti per ogni appuntamento.